Estudio de Pietro Taravacci (2009)
Per un breve canzoniere italiano
por
Pietro Taravacci
(Universitá degli Studi di Trento)
Breve quanto intensa raccolta di 16 componimenti lirici, Trento (o el triunfo de la espera) conferma la qualità artistica di José Manuel Lucía Megías. Il poeta spagnolo (Ibiza, 1967) aveva infatti dato prova della sua autentica vocazione già nella prima raccolta, Libro de horas (2000), per poi proseguire il suo itinerario con Prometeo condenado (2004), Acróstico (2005), Canciones y otros vasos de whisky (2006) e con il recente Cuaderno de bitácora (2007). E di itinerario si può parlare non solo per il percorso creativo che il poeta traccia in poco meno di un decennio di scrittura poetica, ma anche per la costante presenza del viaggio come condizione naturale dell’essere e necessaria all’espressione del suo io lirico. Incontro e distanza sembrano infatti le due leve fondamentali da cui nasce il canto del poeta. L’incontro con i luoghi della vita, che non nascondono il loro aspetto di quotidianità e di contemporaneità, sono occasioni di una indagine poetica sempre necessaria, a partire da una lontananza che evoca sempre una distanza da indagare, da sondare con la parola. Una parola che in José Manuel, come nei poeti che più amiamo, spesso arriva a riflettere, con emozione, su se stessa, sull’evento cui partecipa, sulla sua natura, sul suo destino.
I testi vengono qui presentati non solo in lingua originale ma anche nella traduzione italiana di Claudia Demattè –amica di tante avventure letterarie “de caballerías” in cui José Manuel è maestro– la quale, come recita la dedica posta in epigrafe, “ha reso possibile” quest’altra avventura, avendo permesso al filologo di trascorrere come “visiting professor” alcuni mesi presso l’Università di Trento. Claudia ha avuto modo di discutere a lungo con me di splendore e miseria della traduzione poetica e sa quanto difficile mi risulti in così breve spazio ragionare di un’attività che tanto si accosta alla creazione poetica originale e ne palesa, quando è attenta, il senso e la bellezza, chiamandola a significarsi sotto il cielo di un’altra cultura e di un’altra lingua. E questo fanno i versi di José Manuel, cioè tornano a significarsi, nella trasposizione di Claudia, mentore paziente e quasi silenzioso di quello che lì affianco, nel testo a fronte, sta avvenendo. Sì, perché in questo caso originale e traduzione non solo si pubblicano assieme per la prima volta, ma nascono da un contesto e perfino da occasioni cui partecipano, quasi necessarie parti di uno stesso fenomeno, tanto il poeta che la traduttrice.
La naturale misura e la fedeltà della traduzione italiana non sono semplicemente diligenza, ma semmai un risultato di quell’avvenimento poetico che si dà tra due lingue e due culture, tra una realtà presente, vissuta da un poeta “vagante” che ne evoca una lontana, nel giro di un’esperienza che, nel canzoniere, nasce, si svolge e tende alla sua soluzione finale proprio attraverso la parola poetica, che sta in ascolto di se stessa, registra le fasi dell’événement, e studia i suoi limiti nella rappresentazione del sentimento amoroso. Ma soprattutto, la parola poetica rivela la sua costante aspirazione ad essere luogo del canto, capace di ospitare tutta intera la struggente attesa.
Possiamo dire che tutto ciò era già contemplato, almeno come dinamica basilare di una poetica nascente, nella prima raccolta, Libro de horas. Una poetica che si consolida e si articola in Acróstico e Canciones, e arriva fino a Cuaderno de bitácora, dove il viaggio diviene spontanea metafora della condizione umana e dove l’identificazione dell’uomo e del poeta con il viaggiatore assurge a gioco cosciente. Essere errabondo per natura e necessità, il poeta viaggia lungo le ore della sua esistenza quotidiana, nell’ambiente urbano, o in altre città del mondo o in terre lontane dalla sua vita di ogni giorno, terre quasi immaginarie. Esperienze diverse ma accomunate dalla necessità, così insita in José Manuel Lucía, di conoscersi: di conoscere se stesso mediante l’altro e l’altro nella prossimità con se stesso, prossimità profonda e nascosta, sempre svelata dalla poesia.
Le sedici poesie di Trento (o el triunfo de la espera) formano dunque un piccolo canzoniere che traccia una distinta sequenza, da un punto all’altro d’una vicenda amorosa che si svolge lungo le linee ritornanti dell’attesa, di una espera che cambia volto e si rinnova nella serie di incontri con la città o la natura, ma ribadisce se stessa, punto d’arrivo necessario cui converge ogni componimento, quasi seguendo un’ossessione declamativa che, per l’effetto compositivo che rende, ci piace accostare al “nothing more” e al “nevermore” del Corvo di Poe.
Ma, soprattutto, il sottotitolo rivelatore di questo breve e coerente ciclo poetico, “triunfo de la espera”, conferma la natura di poeta dell’amore, amore pieno e rivelatore, di cui José Manuel ha dato prova in Acróstico: quando contempla l’essere amato da vicino con sospensione quasi mistica, quando lo desidera da distanze reali che da lui lo separano, o dagli abissi di assoluto che il semplice “te quiero” gli apre attorno. E forse non è un caso che quest’ultimo canto d’amore, nato in un paesaggio dolomitico straniante, recuperi la stessa dinamica della terza parte di Acróstico, dedicata all’amore, che si apre con l’immagine della “barca de la espera” per concludersi con l’apparizione dell’essere amato, “sempre tú”, la cui presenza, celebrata in un balbettio emozionato vicino a certa afasia di Juan de la Cruz, trionfa su ogni insufficienza dell’io e dà un senso a ogni cosa.
L’itinerario disegnato da Trento (o el triunfo de la espera), dunque, va dalla prima necessità di “trionfare sull’attesa”, di vincerla o sopportarla stoicamente, fino al “trionfo dell’attesa” stessa. Quasi senza rendersene conto, il poeta disegna il tracciato di un intimo svelamento. A questo cammino di formazione dell’io innamorato e quasi esiliato, a questa storia di un amore che si tormenta e si conosce de lonh, assiste la parola poetica, consapevole del suo limite, dell’ineffabilità cui è costretta di fronte alla pena d’amore, alla struggente nostalgia e alla speranza. Ma, insieme e paradossalmente, come per tanti mistici e tanti poeti che amiamo (da Goethe a Rilke, da Valéry a Jabès, a Bonnefoy, da Guillén a Salinas, a Valente), la parola è l’unico strumento per dar forma all’emozione vissuta, per conoscerla e riconoscerla, nel canto.
José Manuel è attratto e insieme respinto dall’alterità di Trento, dalla novità della terra in cui si trova, così diversa, appunto, dall’ambiente in cui solitamente vive e con il quale il suo io lirico è abituato a dialogare; attratto e tormentato da un paesaggio al quale vorrebbe dare subito un nome. Da un’estraneità così urgente sembra generarsi la poesia di questo libro, che già nei primi versi annuncia la vocazione dell’io a conoscere le cose da un estatico silenzio:
Las montañas de Trento
ocultan sus nombres
bajo las copas nevadas.
Hace frío.
Ma quella neve che tutto copre e nasconde, quel freddo che tutto sospende, ovvero, quell’estraneità delle cose suscita una nuova confidenza con tutto ciò che lo lega all’essere amato. La memoria innesca ancora una volta il desiderio d’amore e avvia una nuova percezione della realtà, dominata dalla espera, da quell’attesa che va realizzando un nuovo tessuto tra due luoghi lontani, fra un presente e un passato più o meno recente, che si implicano. La espera è il filo dell’ordito che si combina variamente con la trama di un un inedito contesto, fitto di nuove meraviglie e di memorie improvvise. Quell’attesa apre il varco a una parola poetica capace di una rara, preziosa intimità con il corpo amato, corpo che splende e scalda proprio dalla sua distanza e svela, dietro la sospensione della neve e del silenzio, un mondo di squisite e brevi metafore d’oriente.
Talvolta, d’improvviso, lo splendido artificio in cui il soggetto poetante s’immerge fa sì che l’io lirico si trasferisca in una terza persona, come se non si bastasse. Anche qui accade, come già nel passato, che l’io del poeta si identifichi con una figura altra, o si trasferisca in essa: in quel momento (5.), che prelude al finale e struggente travestimento del soggetto (16.) nella figura storica di un alto prelato ispanico del Concilio di Trento, la condizione dell’io innamorato ed esiliato, in quella sorta di distanziamento, acquista un più netto rilievo e sperimenta come un epico conflitto tra sentimento e intelletto.
L’io del poeta – così proiettato nella figura dell’accademico, ovvero nel ricordo dell’attività professionale di José Manuel Lucía Megías – presenta la sua storia. Storia di intelletto, di parole eccellenti che in questo nuovo e inedito presente, come accade al Lord Chandos di Hofmannsthal, scoprono il vuoto, la solitudine, un silenzio fatto tutt’attorno alla cultura; e soltanto due parole “amico” e “amato”, icona lulliana di una esclusività amorosa assoluta, sopravvivono al naufragio dell’intelletto, alla saturazione delle idee che pensano se stesse. Storia già vissuta dal poeta che ci aveva detto: “hay minutos en que los libros me traicionan”.
Ma poi, storia e presente si incontrano in Trento, ritrovano un senso nuovo in nuove parole; il passato è vissuto come premessa di quello che il poeta vede, sente, desidera nel ricordo e ricorda nel desiderio. Così l’io innamorato riprende a dialogare con il tu dell’essere amato, vi si confonde nell’attesa che tutto travolge, ma soprattutto confonde l’io e il tu in un’unica esperienza di reciproche attese:
Y tu nuca se calienta bajo mi mano
mientras el corazón recupera los latidos
al ritmo sofocante de la espera.
In questo spazio tra intimo e straniero, talvolta il poeta annulla i tratti oggettivi della città in cui si trova, o forse li interpreta, li sonda con un’ansia che gli abitanti della Trento reale non conoscono, o sembrano non cogliere. Tutto l’essere dell’innamorato ripara nei luoghi prediletti da emarginati e ubriachi, dai quali non sarà mai giudicato, esseri che gridano la loro estraneità, e sembrano ricercare, come lui, nel chiosco del kebab la traccia confidente di un aroma esotico che li porterà a quello che hanno perso, a quello che hanno lasciato lontano. Qui, come altre volte nell’esperienza del poeta, i luoghi concreti e i minimi oggetti del quotidiano, presi nel vortice di un’acuta e improvvisa percezione innamorata, si fanno cifra di una conoscenza misteriosa, la quale, pur nascendo da un’inquietudine intima e personalissima, tende a coinvolgere l’umanità, come sempre accade nella vera poesia. Non solo i “borrachos” che gridano, come il poeta, altri nomi stranieri, ma le cose (le bottiglie vuote, i semafori…) e anche noi siamo implicati in quella “espera”, che si trasforma in panica attesa, vissuta da un’umanità attonita e dolente, umanità che ama e nella quale l’io del poeta sembra specchiarsi e rifugiarsi.
L’amore dunque, per mezzo di un’attesa urgente e necessaria, apre attorno al poeta spazi inediti e fa esperienza di nuove trascendenze. La fantasia poetica, facendosi strumento di sopravvivenza, di sopportazione della pena amorosa e promessa di gioie piene, crea le proprie associazioni, le geometrie intime in cui l’intelletto e il cuore si alleano e cercano inesplorate plaghe di conoscenza per dire e contemplare l’amore, per vivere l’assenza, per popolare l’attesa di immagini rivelatrici. Ed è così che l’esperienza dell’ascesi alla montagna, dove “todo tendrá otro color” (8.), dà figura a quella espera che, raggiunto il suo culmine, non potrà che risolversi nella discesa; e dunque quei monti, inizialmente simbolo di estraneità e di separazione, immagine di una fiabesca prova quasi impossibile da superare, diventano ora strumento di una qualche speranza, e strategia per assaporare un’insolita pienezza della passione amorosa vissuta nella lontananza, per analizzare fino in fondo la natura di quell’amore che “tarde o temprano” confida di godere del frutto desiderato, in fondo alla “china del tempo” dell’attesa, tempo fatto di poesia.
La poesia, d’altro canto, sostanziale all’espera, è manifestazione ultima dell’attesa amorosa. O, rovesciando la prospettiva, l’attesa è la specola da cui l’innamorato vede e intende il mondo. L’attesa privilegia l’immagine e si nutre di “miradas”; e, ancora una volta, fa coincidere l’essere amato con il mitico imperatore dagli occhi “azzurri, intensi, lontani” del romanzo di Laura Mancinelli (Gli occhi dell’imperatore), evocato in epigrafe alla nona poesia di questo breve canzoniere. Lo sguardo scruta l’estraneità dei mondi in cui l’imperatore amante si trova a vivere; e quegli occhi non sono soltanto il mezzo privilegiato per scavalcare le lontananze che lo separano dall’amato,
salió al balcón
y desde el horizonte de la montaña,
mirando al oeste,
inventó ver sus ojos en la lejanía
ma, divenuti strumento del rito di una “oración silenciosa en el cielo trentino”, disegnano una geografia verticale, geografia ideale di una mitica quête cui l’io lirico partecipa con una dedizione tutta consapevole, che lo va riplasmando in figura di mito o leggenda, nella quale può osservare, come dall’esterno, ma sempre più a fondo e con un rilievo sempre più plastico, il proprio tormento d’amore. E dunque la vicenda intima e l’identificazione mitica si approfondiscono in parallelo. L’io amante, novello re Laurino, traccia le linee di un’intera favola, racconto delle prove che i due cuori innamorati hanno dovuto superare e supereranno, per appartenersi totalmente e in perfetta e totale segretezza, in un utopico Rosengarten, qui prospettato quale “jardín lejano de la espera”, come una sorta di mise en abyme della presente attesa (11.).
L’amore, così recuperato, e quasi messo al riparo dal primo disorientamento, si guarda all’infinito nello specchio di una viscerale fictio al cui centro si colloca un’attesa sempre più sottile, sempre più alta, che coincide tutta intera con l’esistenza innamorata. Attesa e amore sono dunque la stessa cosa, si implicano e si corrispondono in un gioco di tensioni che svela la lunga dimestichezza del poeta con le trame e i modi della letteratura cortese, e scopre al tempo stesso il centro innamorato del suo essere, i suoi crescenti slanci, mai conclusi e mai appagati.
Lungo l’itinerario delineato dal prezioso canzoniere, la favola cortese consegna l’io innamorato a una dimensione onirica in cui si tentano nuove verità, si sperimentano nuovi spazi di una geografia interiore, una dimensione fatta di silenzi notturni, gridi senza voce, dove tutto gravita attorno al corpo amato e lontano:
Duerno abrazado a tu espalda
por más que tu estés a cientos de kilómetros
y no puedas escuchar, en el silencio de la noche,
cómo mi garganta es una fuente, un lago, un río,
el mar
en que la corriente de tus sílabas ahogan la espera. (13.)
Dentro il sogno, giunto ai vertici di un’analisi centrifuga che ha portato il soggetto verso plaghe immaginarie, ma certo della sua identità, ora l’io emozionato produce il suo paradosso di straniarsi, “sombra entre las sombras” per le vie e le piazze di una Trento reale, reale ma estranea (come non notare quell’inquietante e impersonale giudizio della gente: “Dicen que estaba loco,/ […] Todos recuerdan sus labios sonrientes”) perché nessuno conosce i minimi risvolti della sua attesa (“Nadie se acercó lo sufiiciente…”), e nessuno sa che al fondo di quella prova d’amore ormai conclusa, al fondo di quel petrarchesco itinerario che lo ha trasformato, lo attende un’inesorabile resa dei conti in cui sarà coinvolto ognuno dei “caducados segundos de la espera” (14.).
Una storia d’amore così sottilmente bilanciata tra l’io e la sua immagine poetica, trova negli ultimi due componimenti la prova più ardua della sfida creativa: dove più è torturato dalla passione di un’attesa che si fa eros e piaga, là il poeta incrocia il mistero del tempo e del ricordo, l’ineffabile ansia dell’arte (arte di figure e di parole) che, abbandonandosi alla sua più intima vocazione epifanica, scopre e conosce, nuovamente, la realtà. L’amico, “ch’era venuto in volo / per dare senso ai suoi versi” è lì dietro una piccola porta,
en la torre más hermosa del castillo
de sus deseos,
sentado allí, en medio de las Nieves
pintadas en el espejo de la primavera,
que se entretenía en danzas y risas,
las mismas que le habían prometido sus cartas,
agotadas en el tacto diario de las cartas. (15.)
Niente di prevedibile, niente di scontato al termine di questo canzoniere. E a chi legge è richiesta un’agilità poetica straordinaria. Per effetto delle alchimie possibili all’amore e alla poesia, chi era lontano da Trento, dal luogo dell’attesa, ora, imprevedibilmente, è all’interno della Torre dipinta del castello, camera magica dove vita vissuta e trasfigurazione fantastica, il tempo presente e il tempo dell’arte si confondono. Lì, in quel luogo simbolico, luogo in cui si s’accendono i sensi e lo spirito, il soggetto innamorato ha collocato la persona amata, per difenderla, per celebrarla.
Il coinvolgente gioco della fictio annulla le barriere fra l’io lirico e la terza persona in cui egli si è spesso trasfigurato: inutile voler chiarire l’identità del soggetto di quell’icastico “Y se levantó”. Nella plasticità del gesto dell’alto prelato del Concilio la forza dirompente dell’amore resta fissata per sempre, anche dove meno sembra legittimata, e resta vincolata alla scrittura poetica, nelle “cuartillas recién escritas”, nei “versos escritos y reescritos en los márgenes” di documenti istituzionali. E l’identità del poeta, ben al di là del gioco traspositivo, ben al di là del virtuosismo rappresentativo, è recuperata in quel vanificarsi della parola che, una volta ancora, registra il suo limite di fronte all’esperienza dell’amore, che ci travolge e riconduce, assieme al poeta, sulla soglia di un’attesa che tutto comprende.
Nel canzoniere italiano, o meglio trentino, di José Manuel Lucía Megías tornano, a dimostrazione della forza della sua voce, elementi necessari alla sua poetica, costanti percettive e compositive che gli sono proprie: tematiche sostanziali quale il silenzio; certo bilanciamento tra la dimensione urbana e la natura; attitudini fondamentali, quali la riflessione metapoetica, che tuttavia non invade mai l’intero componimento, né lo esaurisce; un uso sempre discreto e mai puramente erudito di una vasta cultura letteraria; espedienti stilistici necessari, quali la ripetizione anaforica; la grana di un linguaggio insieme confidente ed elegante, che non si discosta mai da un fitto e intimo discorso che l’io poetico instaura con un tu interlocutore, o, come s’è visto, con una terza persona in cui il soggetto si guarda raggiungendo un più arioso e netto orizzonte di leggenda.
Ma quello che ora più mi preme rilevare in quest’ultima raccolta è quel bilanciarsi tra presenza e assenza, l’accorata analisi di quella zona in cui nasce, quasi per sua natura, la poesia. Lì, le minute cose quotidiane cercano una loro essenza e aspirano a riconoscersi nella parola poetica, senza sforzi esibiti, ma non senza una profonda coscienza del loro stare, come accade in Montale o in Valente, tra “materia” e “segno”, o, come in Cernuda, tra “realtà” e “desiderio”. Ma proprio in questo contemplarsi nella loro essenza, le cose di ogni giorno, gli eventi minimi che si danno in una giornata o nel quotidiano peregrinare del poeta, se da un lato tendono ad un tempo e a uno spazio dell’umanità, dall’altro, nel ritmo della vita e dei giorni possono perdersi e naufragare.
E non deve sfuggire che pur nella fedeltà alla sua poetica Lucía Megías trova qui un tono di maggior raccoglimento, evidente nella squisita brevitas del canzoniere, così come realizza un ancor più fine, e perciò più inquietante, incontro tra l’accorata confessione e il raro gioco di un intelletto emozionato.
Nella prima raccolta poetica, Libro de horas, così come nella distesa lirica drammatica di Prometeo condenado, il verso s’allungava all’inverosimile, pur restando verso, quasi per accogliere tutto quanto il poeta comprende nella vastità del suo sguardo, sempre alla ricerca di nascoste ma necessarie significazioni, di epifanie improvvise. Talora il segno poetico, nella sua concretezza tipografica, poteva sfidare lo spazio bianco della pagina, scendere lungo scale di brevi e singole parole, memori quasi del mallarmeano Un coup de dées, per non alludere che a una sola delle infinite schermaglie che, a partire dalle avanguardie novecentesche, il pieno della parola intraprende con il vuoto che la attornia. E tale rimane, per lo più, il verso, distesamente e liricamente onnivoro, di José Manuel anche nel recente Cuaderno de bitácora, a conferma dell’irrequieta natura di un io che si esprime nel movimento nel tempo e verso il tempo, nello spazio e verso lo spazio, nel viaggio, che in quanto esistenziale peregrinatio da una realtà ad un’altra, innesca una struggente e mai finita nostalgia per ciò che è assente. E dunque il verso lungo di José Manuel Lucía solitamente crea una tensione elastica tra l’interiorità del poeta e il mondo al di fuori; il corpo si fa apertamente memoria, eco di vicende vissute e, viceversa, lo spazio, più spesso spazio urbano, raccoglie un movimento minimo dell’io, fino a divenirne sua sponda metaforica o simbolica.
In Trento (o el triunfo de la espera) il verso si spezza con maggiore frequenza, a introdurre più ricorrenti silenzi tra i sintagmi. È come se in quest’aria nuova e rarefatta la voce poetica si fermasse spesso ad ascoltare, dal necessario silenzio, la nostalgia che evoca. Ma è proprio in una tale evocazione che la poesia di José Manuel mantiene il suo segno distintivo, al di là degli aspetti “contingenti” dell’esecuzione; così la sua poesia, anche quest’ultima poesia che nasce da un’inedita esperienza della personale ma eterna realtà dell’amore, realizza una densa filigrana che si estende in ogni direzione, senza più limiti, filigrana in cui tutto si rimanda, con precisione e rigore di vocazione poetica. Qui tutto partecipa al mistero della rivelazione, perché ogni cosa, presente e assente, arriva a contemplarsi nella sua presenza e nella sua assenza, nel suo essere e nel suo non essere, e tutto sembra avere un’anima e vivere, nuovamente, in un fitto bosco di simboli, in perenne attesa, appunto, “entre ausencia y deseo”.