Estudio de Caterina Ruta (2009)
La poesia neobarocca di José Manuel Lucía Megías
Por
Caterina Ruta
(Università degli Studi di Palermo)
En Libri, manoscritti, scartafacci e altre rarità. Studi in onore di José Luis Gotor, Loretta Frattale, Matteo Lefèvre e Laura Silvestri (eds.), Firenze: Altralinea. 2014, pp. 207-222.
La poesia di José Manuel Lucía Megías è in gran parte riconducibile all’insieme di coordinate che definiscono la postmodernità. L’etichetta, che si accetti o non, può risultare funzionale per fissare alcuni punti di riferimento fra le molteplici tendenze che hanno caratterizzato l’attività letteraria e artistica degli ultimi decenni.
Culturalismo, individualismo, narcisismo, poesia dell’esperienza, edonismo sono caratteristiche che possiamo rintracciare anche nella poesia di José Manuel Lucía Megías[1], cui aggiungo per alcuni aspetti specifici la definizione di letteratura neobarocca[2]. L’uso, a volte incontrollabile, di alcune figure retoriche, proprie della produzione poetica di Góngora e dei suoi seguaci, la sottolineatura costante della riflessione metatestuale e la tendenza alla spettacolarizzazione della creazione lirica mediante forme tipicamente teatrali sono indici della vigile attenzione che il poeta rivolge alla strutturazione dei suoi testi e che lo inseriscono nell’ambito neobarocco, senza, tuttavia, esaurire la complessità delle sue composizioni.
La scissione dell’io, determinata dalle scoperte scientifiche con cui si diede fine all’epoca rinascimentale[3], si ripete al tramonto della ‘modernità’, i cui confini ancora stentano a trovare una data ben precisa. Si avvia di nuovo da parte del soggetto la ricerca della propria o delle proprie identità e l’io lirico sperimenta forme diverse di proiezione del sé all’esterno. Può accadere anche che la voce del poeta si serva del monólogo dramático o poema histórico analógico[4] per nascondersi dietro un personaggio, finto o storico, o nello sdoppiamento del soggetto in due o più voci in modo opposto al monolinguismo lirico.
Questa breve premessa ci introduce all’opera di Lucía Megías[5], poeta che ha già al suo attivo sei libri[6], quando nel febbraio del 2009 pubblica la raccolta Tríptico[7]. Nella sua scrittura il poeta si giova abilmente della strumentazione poetica acquisita e continuamente rimessa in gioco senza risparmiare il ricorso a espedienti retorici più arditi.
Nei suoi libri sono stati opportunamente rilevati frequenti richiami al Surrealismo, in particolare di García Lorca ma anche di Aleixandre, Cernuda e Alberti, a certi tratti della poesia di Jorge Guillén e a modalità della poesia espressionista[8], che estenderei anche a una parte della produzione di Neruda, per esempio a Residencia en la tierra 2[9]. Sappiamo bene che la stagione dei poeti del ’27 costituisce un fenomeno di importanza eccezionale e, quindi, non può meravigliare che Lucíá Megías manifesti il suo omaggio a quei maestri, che ebbero anche il merito di rivisitare in modo intelligente e fertile i classici del Secolo d’Oro. In tal modo i versi del nostro giovane poeta si arricchiscono di sostanziosa linfa vitale in un dialogo intertestuale con i maestri del passato, lontano o più recente che sia, anche quando il riferimento non è volutamente esibito.
Al di là delle numerose metafore, Lucía Megías fa ampio ricorso alla figura della ripetizione sotto forma di anafora, o di parallelismo o di allitterazione[10]. Così facendo, il poeta si mostra raffinato conoscitore del patrimonio aureo della letteratura spagnola e della più antica tradizione occidentale che, anche per motivi professionali, ha avuto modo di approfondire nel corso della sua attività di studioso[11].
In generale, in tutta la sua produzione, egli preferisce il verso lungo, che gli consente di dare respiro alla vena narrativa delle sue composizioni che in tal modo presentano una quasi tangibile corposità. Fernado Gómez Redondo, nell’introduzione a Tríptico, dà una sua spiegazione delle scelte stilistiche del Nostro: “El verso libre es el recurso obligado para dar rienda suelta a una fluidez expresiva que se desborda en sí misma, buscando los remansos de las anáforas y de los paralelismos para intentar contener la emoción poética, para seguir hurgando en el territorio que las palabras conquistan y expanden, recorren y definen.”[12]
Non per questo nelle sue raccolte mancano poesie di più breve consistenza, come sonetti e romances, ma a cominciare dal Libro de hora il verso si allunga fino alle 19/20 sillabe per giocare, in questo caso, con versi più corti, anche di due sillabe, la cui disposizione tipografica rivela a volte un richiamo indiretto alla sperimentazione delle avanguardie storiche. Si veda, per esempio, la seguente strofa di «8’15 horas»:
Sin nariz,
sin ojos,
sin boca,
sin oídos,
sin piernas,
sin brazos.[13]
Gli eventi che il poeta racconta in questo primo volume si collocano nel trascorrere delle ore di una normale giornata di un personaggio contemporaneo, ma nei versi quella brutale quotidianità diventa quasi epica nel suo intrecciarsi con i sentimenti e le tensioni dell’io lirico, giungendo ad elevare un’esperienza individuale a rappresentazione della condizione universale.
L’uso dell’anafora e del parallelismo raggiungono un’estrema intensità nella composizione che corrisponde alle «10’00 horas» del giorno. All’inizio di questo testo troviamo un esempio quasi didattico nella sua perfezione:
Me alejé de tus labios
...
Me alejé de tus brazos
...
Me alejé de tu cuerpo (25).
Dal 17° in poi i versi, con l’esclusione di quelli finali, cominciano tutti con la preposizione ‘para’, quasi sempre seguita da un infinito, positivo o negativo, e poche volte da un ‘que’, con l’unico fine di introdurre l’ossessiva manifestazione dei fantasmi sentimentali ed erotici che turbano la giornata dell’io innamorato (25-28)[14].
Nelle altre composizioni l’anafora si manifesta in tutte le possibili combinazioni. Per esempio, in «22’30 horas» si va dal semplice polisindeto alle anafore leggermente più complesse che scandiscono la seconda parte e, nella terza, al gioco di varianti accuratamente articolato intorno al sintagma este tiempo. L’apparente leggerezza della costruzione si trasforma in una successione compatta e assillante di anafore, assemblate in forma di parallelismo, quando il poeta esplicita il desiderio che lo attanaglia, “encadenar estos versos como un abrazo,/ uno detrás de otro”:
los versos que te escribiré,
los versos que te he escrito,
los versos que nunca leerás,
los versos que nunca volveré a escribir (70).
Significanti e significati creano una spirale avvolgente che dà conto della tensione esistente fra desiderio e pratica poetica.
Il titolo del secondo libro, Prometeo condenado, insinua un esplicito rinvio al mito e rivela, con anticipo rispetto a Tríptico, la presenza nell’opera del poeta della forma dialogata, arricchita, questa volta, da lunghe didascalie, come di solito accade in un testo teatrale. Il verso si allunga a dismisura senza trasformarsi, tuttavia, in prosa poetica per l’evidente strutturazione in versi del poema, che presenta non pochi rinvii tematici al libro precedente. A scorrere, questa volta, sono le ore notturne che, assieme alla mancanza della luce, favoriscono la germinazione di un discorso che possiamo definire surreale. In ciascun canto, eccezion fatta per il I e il VII, Prometeo dialoga con un personaggio sempre diverso, indicato con nomi generici come hombre, mujer, anciano, abitanti di luoghi altrettanto generici, che simbolizzano tutta la negatività del mondo contemporaneo nel cui asfissiante abbraccio il soggetto poetico, novello Prometeo, è condannato a rimanere incatenato[15].
Numerose sono le anafore che si snodano lungo tutto il poema e che si aggiungono a parallelismi che presentano minime variazioni lessicali. Di particolare valore significativo sono i due versi che strutturano il canto 10, quello conclusivo, nell’alternanza fra il vano desiderio di gridare lo sdegno suscitato dalla realtà quotidiana e il bisogno di tacere nell’oscurità della notte, in attesa del nuovo giorno.
L’anciano ripete nel suo monologo “Hablas, hablas, hablas y hablas”, ma le parole si sfilacciano nelle vocali e nelle consonanti che le formano, quando egli, che è soltanto un intangibile rispecchiamento delle parole, si allontana ai primi bagliori dell’alba. Nella sua risposta Prometeo enfatizza la necessità di tacere:
¡Silencio! ¡Silencio!
Que ha llegado el momento de cerrar lentamente los ojos,
de dejar caer lentamente el telón de las últimas palabras,
telón que sólo es capaz de reflejar, lento, lento, los interrogantes de nuestros ojos...
¡Silencio! ¡Silencio!
ha llegado el momento de dar la vuelta a las cartas,
de comenzar la huelga de los pulmones mientras comienza la espera... (85).
Il Coro de Oceánidas impone il silenzio sulle parole e il poema si chiude con il verso “un último gesto sin palabras…”. Nella didascalia, però, si legge che dietro il sipario, che si chiude, s’intuisce il sorgere dell’alba e si vede un bambino che alla maniera di Chagall vola sorridendo verso il lato sinistro. Il significato positivo dell’immagine è congiunto all’annotazione finale che recita: “Sólo se escucha el ritmo acompasado de unos párpados que se han cerrado y que duermen; duermen soñando que amanece, que, una vez más, el amanecer parece estar cerca.” (p. 87). Anche nell’attenuazione che le forme verbali duermen e parece comportano, non si possono negare i segnali di maggior apertura verso una visione più rassicurante della vita che il nuovo giorno suggerisce.
In queste prime opere Lucía Megías proietta la cocente delusione provata nei riguardi della società e della cultura in cui si muove la sua esperienza, la poesia, tuttavia, favorendo lo sfogo liberatorio, svolge il suo ruolo salvifico. L’esercizio della scrittura aiuta a tracciare anche un percorso esistenziale, che consenta al soggetto lirico di continuare più serenamente la ricerca dell’altro.
La tendenza a creare testi che nelle loro simmetrie racchiudono messaggi criptici, si manifesta anche nella terza opera. Acróstico già nel titolo rivela il piacere che il poeta prova a ‘giocare’ con le parole. Le composizioni sono tutte rigorosamente strutturate, ma, com’è già stato rilevato da Rosa Navarro, «Obsesión» e «Decálogo de torturas» si costituiscono come altri modelli esemplari di parallelismo, costruiti sull’uso degli infiniti, secondo la lezione direttamente derivata dai poeti barocchi[16]. Nella seconda poesia, con l’aiuto di una rima consonante in ‘arte’, doppiamente sottolineata nel verso di chiusura, e delle sue articolazioni in ‘erte’ e ‘irte’, Lucía Megías denuncia la doppia faccia dell’amore, ‘l’amore e il disamore’, come meglio non avrebbe fatto un poeta seicentesco:
Y verte y no verte,
Mirarte y no mirarte,
Sentirte y no sentirte
Nada más que en mi recuerdo.
Abrazarte y no abrazarte,
Besarte y no besarte,
Acariciarte y no acariciarte
Nada más que a tus recuerdos.
Verte y no abrazarte,
Mirarte y no besarte,
Sentirte y no acariciarte.
No conozco mayor tortura,
¿no se inventó mayor angustia
que amarte y no amarte?[17]
Le poche anafore, che s’ istituiscono fra le due quartine e la prima terzina, intrecciano fra di loro, anche con uso della simploche, gli infiniti positivi e negativi, creando una rete di contrastanti sensazioni erotiche, che nella sintesi finale rappresentano la tortura patita dal soggetto poetico.
Il mondo esterno, fatto degli accadimenti ordinari e straordinari di ogni giorno, entra con forza in Canciones y otros vasos de wisky, quarto libro di poesie del nostro poeta. Le canciones, titolo ambiguo che oggi rinvia non solo alla tradizione poetica delle origini medievali ma anche alle composizioni di musica leggera che ascoltiamo e canticchiamo continuamente, sono in gran parte dedicate a nomi di persone ed evocano, in perfetta sintonia, eventi e luoghi familiari. Le citazioni di varia natura s’insinuano nel tono diaristico delle poesie che non abbandonano l’uso intenso e ripetuto degli stilemi già segnalati. Si tratta, infatti, di una raccolta incui la presenza delle anafore e dei parallelismi è dominante, rendendo difficile la scelta di esempi da citare. Basti leggere solo un frammento intensamente caratterizzato dalla ripetizione degli infiniti:
Le miro leer y sonreír,
leer y subrayar,
leer y escribir en los márgenes de mi libro,
leer y morderse el labio inferior,
leer y tocar ligeramente sus gafas,
leer y acariciarse una uña,
leer y cerrar a veces los ojos,
leer y agitarse su pequeña nariz de gata,
leer y volver a acariciarse las puntas del pelo,
leer y respirar adjetivos de primavera.[18]
Le impressioni di viaggio, consegnate nelle pagine di Cuaderno de bitácora, riflettono l’impatto del soggetto con i luoghi visitati nei suoi spostamenti, paesaggi più o meno estranianti, ma tutti ugualmente significativi. Ogni cosa è vista o sentita dall’io lirico che riflette sul referente oggettivo il proprio stato d’animo d’individuo e di poeta. Città, strade, giardini, monumenti agiscono sempre come specchi riflettenti che suggeriscono occasioni di dialogo fra l’‘io’ e il ‘tu’, realmente distanti per lo spazio fisico che li separa. Per il suo valore simbolico Taravacci definisce l’approdo della poetica di Lucía Megías a Cuaderno de bitácora come libro: “…dove il viaggio diviene spontanea metafora della condizione umana e dove l’identificazione dell’uomo e del poeta con il viaggiatore assurge a gioco cosciente”[19].
Se nell’insieme della raccolta la corposità delle poesie opacizza l’evidenza delle figure retoriche, non dobbiamo pensare che il poeta stia modificando radicalmente la sua cifra. Basta sfogliare la sezione dedicata a «Ciudad de México» per imbattersi in una composizione che riunisce ventotto versi che, con l’eccezione dell’ultimo, iniziano tutti con l’avverbio o l’aggettivo demasiado[20]. La compattezza della costruzione anaforica riesce a suscitare nel lettore lo sgomento provato dal poeta di fronte alle dimensioni smisurate di una metropoli, sotto ogni aspetto eccessiva, come quella messicana, dove, ignorato dalla folla, l’io lirico ritorna a rimpiangere l’assenza dell’altro: “Demasiada tristeza, demasiada soledad/ cuando tú estás lejos”.
Il tono generalmente più misurato che governa questo libro, sembra rasserenarsi in modo particolare nel verso lungo delle composizioni dedicate alla Cina, dove l’impegno descrittivo e narrativo insieme delimita la presenza delle figure retoriche e rende il flusso poetico più discorsivo[21]. Nell’ultima composizione di questa sezione il verso “Llueve sobre Beijing” si ripete all’inizio di quasi tutte le strofe, ricreando l’atmosfera nostalgica che caratterizza il momento dell’abbandono dei luoghi visitati, per recuperare nei quattro versi finali la tristezza dell’altro momentaneo abbandono, quello della persona amata, nell’allontanamento della partenza:
Nunca termina el viaje cuando parte de tu corazón ya no te acompaña,
cuando el deseo de volver se adelanta a los abrazos de despedida.
Llueve sobre Beijing.
Sobre Pekin cae una lluvia lenta como de lágrimas.[22]
Libro della lontananza e dell’attesa è per definizione Trento (o el triunfo de la espera), scritto rispetto alla residenza abituale del poeta in un altrove, la città di Trento e i suoi dintorni, luogo prediletto da Lucía Megías, che lo allontana, però, dall’essere amato in una separazione che, seppure transitoria e deliberatamente scelta, non è meno sofferta. Luis Alberto de Cuenca usa la metafora del cacciatore e della caccia per rappresentare la condizione dell’amante, che ha già conquistato la preda ed è stato da lei conquistato. Lo stato attuale, dunque, non è quello della conquista, ma del timore della perdita, della tensione continua per non poter alimentare con la presenza la passione che unisce la coppia[23]. Il canzoniere del nostro poeta, nella sua brevità e apparente semplicità, sembra distaccarsi dai libri che lo precedono. Il particolare scenario della città trentina e del paesaggio dolomitico infonde nei versi una serena accettazione della sofferenza, vissuta, ora, come prova preparatoria al raggiungimento del bene, allo stesso modo degli eroi dell’universo cavalleresco, evocato in filigrana da Lucía Megías, o dei poeti mistici che spengono le loro balbettate invocazioni amorose nel silenzio[24].
Anche Taravacci osserva che non manca in queste pagine la ripetizione anaforica, ma, così come l’estensione del verso si mantiene quasi sempre entro i canoni della tradizione consacrata, l’anafora è spesso limitata a due ripetizioni nel rispetto della brevità del testo. Fa eccezione la composizione n. 13 con la quadruplice ripetizione dell’attributo demasiado, che questa volta sottolinea la reazione soggettiva di fronte all’immensità di uno scenario inusitato:
Demasiado horizonte para ser un río.
Demasiadas orillas para ser el mar.
Demasiado silencio para ser una fuente.
Demasiadas sombras para ser un lago. (65)
All’inizio delle strofe successive il verso “Sueño abrazado a tu espalda” si modifica leggermente in “Duermo abrazado a tu espalda”, accentuando con la paronomasia la consueta ritmicità dei versi di Lucía Megías. All’anafora e al parallelismo nel finale si aggiunge una preziosa correlazione raccoglitiva, che ne accentua ancor di più la patina neobarocca : “cómo mi garganta es una fuente, un lago, un río,/ el mar/ en que la corriente de tus sílabas ahogan la espera.”
Il poeta, dunque, mantiene le caratteristiche del suo linguaggio anche se la maturità raggiunta lo aiuta a depurare i versi da alcune scorie, nell’intimismo di una poesia che, seppur concretamente collocata nel tempo e nello spazio, trascende la circostanza contingente per guardare alla condizione universale. Lo sforzo per liberarsi dell’eccessivo peso dell’umana fisicità lo fa ricorrere anche alla terza persona, sia essa quella del professore in cattedra (n. 5), o dell’insonne innamorato (n. 9), o del re Laurino (n. 11)[25] o del prelato tridentino, solenne protagonista della composizione che chiude la raccolta e che avvicina l’attesa al silenzio del mistico: “Se había quedado sin palabras/ (una vez más)/ a la orilla del triunfo de la espera.” (n. 16, 77).
Tríptico è, invece, il trionfo del numero tre; nella sua articolazione il libro comprende «3 Poemas escénicos», «3 Monólogos», «1 Epílogo a 3 voces». Le composizioni si differenziano per le forme poetiche e teatrali scelte, ma trovano la loro unità negli stilemi d’autore e nella tensione emotiva che pervade i diversi testi. L’uso di vocaboli, che appartengono al lessico del teatro, denuncia chiaramente la destinazione dei testi all’impatto immediato con gli spettatori, reali o simulati, della rappresentazione.
Anticipazioni di alcune parti si erano avute con il pliego poético diffuso durante la Feria del Libro di Madrid nel 2004 («Dos sombras»), il secondo poema escénico, e con «Letanía a dos voces y un eco», stampato nella brochure «Poemas para una boda» del 2006, che occupa la posizione finale del libro. In quell’occasione la Litania era stata recitata da tre attori, così come nel 2009 l’intero Tríptico è stato messo in scena[26]. Il volume, quindi, non si presenta compatto in relazione ai tempi di scrittura, ma testimonia, proprio per questa caratteristica, uno sviluppo coerente nel tempo della poetica di Lucía Megías[27].
Il «Diálogo entre el ángel y el demonio», posto a chiusura della raccolta Canciones y otros vasos de wisky, aveva già proposto il dialettico contrasto fra due proiezioni opposte dello stesso essere. L’articolazione del testo in otto composizioni[28] mette in risalto l’ansiosa tensione verso l’altro del soggetto lirico, che lo sente lontano per motivi che attengono alla sfera della banale quotidianità. Il desiderio dominante è già quello di raggiungere la fusione dell’io e del tu, del demonio e dell’ángel, in un unico essere per approdare al paradiso immaginario, il solo che una realtà laicamente vissuta lasci intravedere: “Juntos tú y yo…/ ¿Cómo imaginar de otro modo el paraíso?” (72). I versi di Nicolás Guillén, posti in epigrafe alla poesia «[Envidia]»[29], corroborano la forza dell’obiettivo cui aspira l’io poetico, ma ne rivelano anche la natura conflitttiva: “Vivir más allá de los laberintos del deseo/ de ese querer que te encuntre el minotauro,/ de ese no querer encontrarte con el minotauro” (76), e anticipa il tema centrale del primo “Poema escénico” del Tríptico.
«Ángel o Demonio (poema escénico a dos voces)» è forse la composizione più complessa del volume. Gli attori, emblemi delle forze positive e negative che guidano i comportamenti umani, dialogano negando a turno quanto ha detto l’altro. A metà del testo, nelle strofe numerate con il 12, in un insieme di 22 a doppia voce, come indica il diverso carattere tipografico, comincia il graduale e reciproco trasferimento dell’atteggiamento dell’uno nell’altro. Continua a meravigliare -alludiamo alla maravilla che doveva suscitare l’arte barocca- l’estrema cura dell’organizzazione delle strofe che si appoggia su pochi artifici morfo-sintattici, retorici e, per quanto attiene alla stampa, visivi. L’incipit e l’explicit si basano sulla denegazione di un’idea negativa, come i numerosi imperativi (no me quieras, no me escribas, no me dejes ecc.), collocati come anafore, evidenziano nell’insistente ripetizione delle loro varianti.
Le voci delle strofe 1 recitano “Ya no te quiero./ Ya no puedo dejar de quererte.”; alla fine del testo i versi si scambiano la posizione: “Ya no puedo dejar de quererte./ Ya no te quiero.”. Non siamo distanti dai versi “¿no se inventó mayor angustia/ que amarte y no amarte?”, letti precedentemente, o da quelli tratti dal «Diálogo entre el ángel y el demonio». L’io, sdoppiato nelle forze che lo agitano internamente, disegna una figura che richiama la visione anamorfica, tanto utilizzata dall’arte barocca, quella di un’immagine che si va trasformando col mutare della prospettiva da cui viene osservata e che in sostanza non appartiene a nessuno degli enunciatori, ma risulta dall’associazione e dal progressivo scambio dei loro tratti distintivi[30].
Più metamorfica è nella terza pièce l’immagine dell’io, rinviata di continuo nel gioco dei quattro specchi entro i quali il soggetto si agita nella confusión melodramática dell’atto unico «Soy yo»[31]. Quando il personaggio si mette in piedi sulla sabbia, dove aveva giaciuto, resta la forma di un angelo, e ancora una volta angelo e demone lottano all’interno dell’io fra la nostalgia dell’infantile ricordo dei Mares del Sur e le lacerazioni del presente di un uomo di trentasei anni (“Tengo trenta y seis años y estoy cansado”, 45) che si strofina le mani per liberarsi di un simbolico sangue di shakespiriana memoria (“Soy uno/ que una mañana se levantó con sangre en las manos,…” (46) [32]. Nella conclusione la scelta dell’azione drammatica ribadisce l’eterna ricerca della propria identità che il soggetto lirico, più che mai proiezione dell’uomo contemporaneo, non smette di perseguire:
Soy uno
Que se inventa ángeles…
Para no tener que reconocer demonios. (49)
In «Dos sombras», il secondo poema, si affronta un tema d’interesse pubblico e civile. La parola paz, scritta in corsivo, domina tutta la composizione, costellata di molteplici didascalie che ne accentuano lo sviluppo narrativo. Anche in questo caso -forse è opportuno ricordare la retrodatazione del poema-, l’autore sfrutta tutte le possibili articolazioni della ripetizione, in modo particolare dell’allitterazione, per dare conto dell’inesorabile condanna dei due soggetti, in cui l’io poetico si è oggettivato, a soccombere alla sopraffazione degli interessi che reggono il mondo.
Un esempio, fra i molti, dove la ripetizione abbraccia i campi della vista e dell’udito, è dato dai versi seguenti:
sobre el parqué de los Consejos de Ministros,
sobre el parqué de los directivos de las noticias,
sobre el parqué del salón de bodas,
sobre el parqué del niño recién nacido
que llora porque no le gusta el olor a petróleo podrido. (p. 41)
Nei tre monologhi della parte centrale l’io protagonista del primo, «Yo», si rispecchia nei personaggi suggeriti dai titoli dei due successivi, «Frida» e «La puta vieja». È un caso di ‘correlato oggettivo’, ottenuto ricorrendo al ‘monólogo dramático’. Nei versi del primo testo s’insinua già, anche se in modo indiretto, il rinvio alle due protagoniste delle composizioni successive, suggerendo l’ipotesi di una scomposizione dell’io in tre sfaccettature diverse.
Il tema centrale di «Yo» è “Hoy han caído todos los velos” (53), direttamente introdotto nell’incipit della composizione. I veli cadono in un viernes de carnaval (54), quando, invece, si indossano le maschere e gli abiti che occultano aspetti e comportamenti del soggetto travestito[33]. I veli caduti fanno affiorare i ricordi di tutto un percorso esistenziale che specialmente nell’infanzia vive i suoi traumi più incisivi:
Y en esta noche d e viernes de carnaval
han caído por fin todos los velos.
y las heridas aún no han cicatrizado.
Y la sangre que baña los zapatos
no es la sangre de hoy, sino de ayer,
de esa herida de niño que no recuerdas,
de ese sueño de niño que has olvidado,
de esa nube en la que una mañana
descubriste el itinerario de tu vida. (55)
Giochi infantili, allegria del mascheramento, preghiere e riti religiosi dedicati a improbabili figure di santi rivelano nel presente del ricordo tutta la loro fallacia. Novello Narciso[34], questo yo si rispecchia all’infinito nei miles de espejos, che appaiono dopo lo svelamento delle menzogne, senza trovare risposte soddisfacenti all’affannosa ricerca della nuova identità: “Espejos que en sus ojos grises nos reflejan/ y en ellos nunca me reconozco./ En ellos nunca aparezco.” (54). L’io è sottoposto a continue metamorfosi; sarà ‘el sapo’, metafora che ritorna nella poesia successiva, o ‘la salamandra’, la cui pelle lo fa scivolare sugli specchi, assimilandolo al ‘caracol’, senza riuscire a trovare l’aspetto definitivo. Si corre il rischio che la scena, nascosta dietro il velo, mostri il vuoto, che le parole non riescano a riequilibrare il turbamento e si dissolvano in un assoluto silenzio. L’impatto con il nulla rievoca inevitabilmente il fantasma ultimo della morte:
Después de esta noche, no quedarán velos.
Tan solo un espejo ante otro espejo.
Infinitos silencios. Infinito vacío.
Infinito reflejar una nada en el imposible
beso de Narciso en el espejo de la fuente.
Besos huecos. Besos sin aliento.
Cuerpo tan solo a la espera de la muerte.
Esa que se acerca por las esquinas
De las máscaras de un viernes de carnaval. (58)
Le verità disvelate agiscono come pugni sterminatori che fanno crollare le esperienze del passato, i desideri insoddisfatti o i fugaci e furtivi baci carpiti come quelli delle “tristes putas viejas” (p. 56).
Nel secondo monologo la proiezione dell’io nella figura storica di Frida Kahlo si concentra in prima battuta nella ricerca del proprio essere, riflesso nello specchio e nella sua stessa pittura. Il poetasi esprime ricorrendo ancora all’anafora e al parallelismo e scambiando, nell’ultimo dei versi citati, la posizione dei due sintagmi:
Me miro una y otra vez.
Me dibujo una y otra vez.
Me busco una y otra vez
Y una y otra vez me encuentro perdida. (59)
I ferri che violentano il corpo dell’artista messicana, raffigurano anche il dolore interno (“los pliegues de los hierros interiores”, 60), la sofferenza di un essere che si vede costretto in un letto, reale e/o immaginario, dal quale non si può sollevare come un ‘cuerpo muerto’, un corpo imprigionato, stordito dal dolore e dalla morfina, le cui reazioni -gesti, gridi, baci- si vanificano nell’impossibilità della reazione:
Y al pintar se me duermen las manos.
Y al gritar se me duerme la lengua.
Y al besarte se me duermen los labios.
Y mi cuerpo sigue dormido, muerto
desde hace ya demasiados años.” (60).
La tortura, cui la sorte ha destinato Frida (“Donde todos ven una cama,/ yo veo un potro de tortura,...”, 59), e la tristezza della sua vita trascendono i limiti della protagonista del monologo per esprimere il vuoto di chi si lascia dietro il passato, -affetti, carezze, regali, feste, sogni-, e muore lentamente fra i dolori del presente e l’oblio degli altri. Riflettersi nel nuovo quadro dipinto è dire addio al se stesso che si sta cercando e all’altro, il cui ricordo ferisce ancora penosamente il soggetto. Nell’altro è adombrato il pittore Diego de Rivera, marito nella realtà della pittrice: “… como si mis toscas y dolorosas/ pinceladas pudieran ponerse a la altura/ abismal de tus manos de genio, de santo.” (61). Ma il genio, il santo si trasforma in ‘sapo’, che “…en realidad deseas que me muera,/ que me muera ya, que me muera en este instante/ de lágrimas y de sílabas entrecortadas.” (61). La metamorfosi, riferita a Rivera, era stata annunciata nel primo monologo (“Pero en vez de príncipes y paisajes azules/ te has de conformar, nueva Frida,/ con besar al sapo, con dejarte/ seducir por el sapo de la mediocridad ...”, 55), creando un evidente contatto con il secondo.
L’oggetto dei sorrisi di Frida, ora gridi e insulti, è ormai solo il segno di un amore fallito. L’ipocrita accorrere dell’uomo al richiamo di una sofferenza, non più condivisa, non può restituire all’io la sua passata identità: “Hace tiempo que dejé de ser Frida./ Hace tiempo que no me reflejan los espejos.” (62).
I “Labios de puta vieja” (60) della pittrice messicana richiamano il personaggio del terzo monologo drammatico, «La puta vieja», figura in cui si concentra la tristezza di chi non è mai stata veramente amata, ma solo usata per amori mercenari[35]. La negazione anche di un minimo risarcimento affettivo, dolorosamente affermata con l’insistente ripetizione di nadie nunca, sfocia nell’idea di una morte solitaria: “Me moriré cualquier día, cualquier noche./ Me moriré sola. Sola como he vivido./ Y nunca nadie me habrá dicho te quiero.” (64). L’impossibilità di destinare ad altri il proprio amore, neanche al figlio nato dal caso (“Ni ese niño que tuve, una noche de luna/ y que me miraba a las mañanas/ con sus preguntas llenas de legañas”, 63), impedisce alla vecchia prostituta di potersi rispecchiare nell’altro, di avere riconosciuta la sua esistenza anonima (“Pero, ¿a quién le pueden importar ya/ las lágrimas solitarias de una puta vieja?”, 66). Il gioco degli specchi, allegoria della ricerca incessante della propria identità, ma espressione anche di una visione angosciata e angosciante della condizione umana, unisce i tre monologhi, che sul versante stilistico riflettono la maturità dell’esercizio poetico da parte dell’autore.
Dopo aver manifestato tante inquietudini, personali e sociali, il volume si chiude con un testo che canta l’incontro felice di due esseri che finalmente si ritrovano l’uno nell’altro. Le due voci recitanti fondano un presente, che è insieme ricordo del passato, esaltazione della condizione attuale e speranza in un futuro ugualmente felice. L’eco parziale delle prime battute che i due personaggi si scambiano nella «Litanía » e che si ripete in modo regolare alla fine delle altre, ripropone la frase “Tantas, pero tantas cosas” a testimonianza dell’attuale paradiso goduto dai due amanti e della doppia proiezione verso l’ieri e il domani. Una felicità sempre in bilico, che avanza faticosamente fra pericoli e paure e che nessuna certezza può contrastare.
Esercizi retorici, metafore, metamorfosi, anamorfosi, teatralità sono i caratteri che sono emersi da queste veloci e parziali considerazioni sulla poesia di José Manuel Lucía Megías. Altri, ugualmente significativi, si sono dovuti ignorare per motivi oggettivi, ma meriterebbero la stessa attenzione, penso, per esempio, alla costante preoccupazione metaletterario variamente espressa in tutte le raccolte. Sono tutti aspetti che giustificano il riferimento obbligato alla letteratura barocca e che confermano sia il ruolo di questa componente nella letteratura postmoderna sia la ricca e approfondita cultura del poeta, nonché il suo talento.
NOTAS
[1] Si vedano fra gli altri testi José Luis García Martín, Selección nacional. Última poesía española, Gijón, UNIVERSOS, 1995; Miguel García Posada, Poesía española. La nueva poesía (1975-1992), Barcelona, Crítica, 1996; Jesús García Sánchez, El último tercio del siglo (1968-1998). Antología consultada de la poesía española, prólogo de José Carlos Mainer, Madrid, Visor, 1998; Juan Cano Ballesta, Poesía española reciente (1980-2000), Madrid, Cátedra, 2002. Di interesse specifico i saggi «La poesía de la experiencia» di L. García Montero, pubblicato prima in Complicidades. Litoral, 217-218, Málaga, 1998, pp. 13-21, e poi incluso nell’introduzione all’antologia della sua poesía dal titolo Poemas, Madrid, Visor, 20042, e La otra sentimentalidad, una specie di manifesto poetico che L. García Montero insieme con i due poeti granadini, Álvaro Salvador e Javier Egea, premise alla antologia dallo stesso titolo di loro poesie, pubblicata nel 1983 (Granada, Editorial Don Quijote), ora in La otra sentimentalidad. Estudio y antología, edición de Francisco Díaz de Castro, Sevilla, Fundación José Manuel Lara, 2003, pp. 37-40.
[2] Vedasi in primo luogo il testo di Omar Calabrese, L’età neobarocca, cui è seguita una significativa elaborazione critica a livello internazionale. Per un aggiornato panorama dei fenomeni contemporanei visti nel loro rapporto con la tradizione lontana e vicina, rimando ai volumi e alla bibliografia in essi inclusa di Luis Martín-Estudillo, La mirada elíptica: el trasfondo barocco de la poesía española contemporánea, Madrid, Visor Libros, 2004 e di Juan Cano Ballesta, Nuevas voces y viejas escuelas en la poesía española (1970-2005), Granada, Editorial Atrio, 2007.
[3] Si veda almeno di Saverio Sarduy , Barocco, Il Saggiatore, Milano, 1980 (1975), trad. it.
[4] Cfr. Martín-Estudillo, op. cit., pp. 53-63 e Cano Ballesta, op. cit., pp. 144-155 e 181184.
[5] Ibiza, 1967. José Manuel è professore di Filologia Romanza presso l’Universidad Complutense di Madrid, città dove ha trascorso la maggior parte della sua vita, e anche Coordinatore accademico del Centro de Estudios Cervantinos di Alcalá de Henares. Conta un’ampia produzione scientifica e si è esercitato, inoltre, nella traduzione di testi medievale e rumeni.
[6] Libro de horas, Madrid, Calambur, 2000; Prometeo condenado, Madrid, Calambur, 2004; Acróstico, Madrid, SIAL/Contarpunto, 2005; Canciones y otros vasos de whisky, Madrid, SIAL/Contarpunto, 2006; Cuaderno de bitácora, Madrid, SIAL/ Contrapunto, 2007 e Trento (o il trionfo dell’attesa), testo bilingue con traduzione italiana di Claudia Dematté, Bari, Levante Editori, 2009.
[7] Prólogo de Fernando Gómez Redondo, Madrid, SIAL /Fugger Poesía.
[8] Cfr. el «Prólogo» di J. Francisco Peña a Cuaderno de bitácora cit., pp. 7-12.
[9] Pablo Neruda, Residenze sulla terra, a cura di G. Bellini, Firenze-Antella, Passigli Editori, 1999, pp. 93-171.
[10] Per le definizioni di queste tecniche poetiche cfr. Bice Mortara Garavelli, Manuale di retorica, Milano, Bompiani, 1989, pp. 201-206. Ricordo che una forma di parallelismo più complessa dell’anafora consiste nel ripetere le stesse strutture sintattiche con gli stessi elementi lessicali o con lievi modificazioni Si vedano i saggi in cui Dámaso Alonso analizza il fenomeno della pluralità e della correlazione nella poesia barocca, «Versos plurimembres y poemas correlativos», Revista de la Biblioteca, Archivo y Museo del Ayuntamiento de Madrid, XIII, 1944; Poesia española, Madrid, Gredos, 19665 (1952); Pluralità e correlazione in poesia, Bari , Adriatica, 1971; Dámaso Alonso y Carlos Bousoño, Seis calas en la expresión literaria española, Madrid, Gredos, 19794 (1956).
[11] Cfr. il «Prólogo» di Rosa Navarro Durán a Acróstico cit., pp. 9-16.
[12] «Una lectura (no crítica)», in Tríptico cit., p. 7.
[13] P. 14. Si osservi che a differenza di molti scrittori delle avanguardie storiche europee, Lucía Megías rispetta i segni di punteggiatura. La succitata modalità si ripeterà negli altri libri senza diventare, tuttavia, una costante. Fra gli altri versi cfr. «Canción para Marisa», Canciones y otros vasos de wisky cit., p. 46. Si veda anche «Nueva oración desde la Basílica de San Pedro», in Cuaderno de bitácora cit., p. 46, dove affiora con forza il riferimento al García Lorca del Llanto por la muerte de Ignacio Sánchez Mejías.
[14] Lo schema si ripete in forma insistente in «Obsesión» di Acróstico (p. 34) per esprimere le opposizioni dello stato d’animo dell’innamorato secondo la tradizione che da Petrarca arriva a Lope de Vega e a Villamediana, come ha sapientemente osservato Navarro, op. cit., p. 10.
[15] “…y hablas, hablas y hablas,/ atrapado en la circunferencia monótona de las miserias cotidianas,/ encadenado a la roca de tus miserias, que son hormigas, diminutas hormigas,/ que encierran las insignificantes tragedias que te destrozan los días.”, Prometeo cit., p. 87.
[16] In particolare Navarro ricorda Lope de Vega e Juan de Tassis, op. cit., p. 43. Per altri aspetti Taravacci evoca la parola di Juan de la Cruz, «Figure dell’attesa: un canzoniere di Lucía Megías», in Trento (o il trionfo dell’attesa) cit., p. 18.
[17] Con la minima aggiunta della congiunzione ‘Y’, qui il poeta ricorda la composizione che Rafael Alberti dedicò alla morte del torero Ignacio Sánchez Mejías, «Verte y no verte», cfr. Rafael Alberti, Obras completas, I, edición de Jaime Siles con aportaciones críticas de Gonzalo Santoja, Barcelona, Seix Barral, Sociedad Estatal de Conmemoraciones Culturales, 2003, pp. 439-448.
[18] Tratto dalla composizione 3 di «Canción de la lectora de poesía», p. 32. Appare evidente il surplus di significato che l’abbondante allitterazione aggiunge.
[19] «Figure dell’attesa» cit., p. 17.
[20] «Un domingo por ciudad de México», p. 72.
[21] «III. Diario de un viaje a la tierra del dragón», op. cit., pp. 83-114.
[22] «4 de noviembre: 10.10 horas (¿Final del viaje?)», pp. 113-114.
[23] «Pórtico», in Tríptico cit., p. 11.
[24] Cfr. Taravacci, «Figure dell’attesa» cit., pp. 15-31.
[25] Non inganni la prima persona utilizzata nella proiezione del cavalleresco re.
[26] La prima rappresentazione ha avuto luogo nella casa della Cultura de Tres Cantos (Madrid), il 7 marzo 2009 a opera del gruppo teatrale Aldaba, con il titolo Del amor y sus sombras.
[27] Lo stesso poeta dichiara nel «Post Scriptum» che sono composizioni scritte nell’arco di dieci anni e di ciascuna di esse fornisce la motivazione iniziale, p. 73.
[28] «[Demonio]», «[La sonrisa]», «[Preguntas]», «[Pereza]», «[Envidia]», «[Espera]», «[Dudas angelicales]», «[Blasfemia]», op. cit., pp. 71-80.
[29] “Me duele que a veces tú/ te olvides de quién soy yo;/ caramba, si yo soy tú/ lo mismo que tú eres yo.”, ibidem, p. 76.
[30] Cfr. Martín-Estudillo, pp. 53-63 e per l’arte barocca Enrica Cancelliere, Góngora. Percorsi della visione, Palermo, Flaccovio, 1990; «Las aberraciones de la vista como procedimiento de la metáfora», in «Introducción» a Pedro Calderón de la Barca, El príncipe constante, Madrid, Biblioteca Nueva, 2000, pp. 78-85. Per gli aspetti teorici cfr. Jurgis Baltrušaitis, Aberrations, quatre essais sur la légende des formes, Paris, Flammarion, 1983 e Anamorphoses ou Thaumaturgus Opticus, Paris, Flammarion, 1984.
[31] Il titolo completo del poema 3 è «Soy yo. (Confusión melodramática en un solo acto...multiplicado por cuatro)», p. 45. L’autore c’informa che aveva seguito la suggestione derivata dalla lettura di «Who is me» di Pier Paolo Pasolini. La composizione si trova ora in «Poesie disperse II», Bestemmia, a cura di Milano Garzanti, 1993, vol. II, pp. xxx-xxx.
[32] La didascalia recita: [Se frota las manos, primero convulsamente, como queriéndose desprender de la sangre invisibile de sus manos, pero…], p. 46. L’anafora più insistente si trova nella sezione che comincia con il verso “¿Cuándo tus ojos dejaron de ser mis ojos?”, pp.48-49.
[33] Mi sembra evidente l’allusione alla pièce teatrale di Ramón del Valle-Inclán Martes de carnaval. C’è pure una citazione da Luis Buñuel nel verso “el ángel exterminador, el disfraz”, El ángel exterminador è il titolo di un suo film del 1962, prodotto nella città di México.
[34] “... uno de esos cielos de fuente cristalina/ en que Narciso se sigue buscando/ para sentir en sus labios un verdadero beso,/ un verdadero y único beso de amor.” (p. 55) e i versi di p. 58 già citati.
[35] Sebbene il tema sia stato trattato più volte, trovo qualche affinità con la poesia di R. Alberti «Lo que yo hubiera sido», che leggo in R. Alberti, Il mattatore, Eutro Editore,1966, pp. 74-81. Dedicato all’attore Vittorio Gassman, il volume, che mi è stato regalato da José Luis Gotor, comprende una selezione di poesie tratte da varie opere del poeta gaditano.